Dicono che sfortuna è nascere grande poeta, ma bulgaro: perché quasi nessuno sa leggere la tua lingua. Tuttavia anche morire ammazzati lo stesso giorno di Aldo Moro è un ottimo presupposto per essere dimenticati dalla storia. Per Peppino Impastato, i presupposti ci sarebbero stati tutti. Anche il fatto che nell’immediatezza i carabinieri si adoperassero attivamente per archiviare il caso sotto la voce “attentatore maldestro”, vittima della stessa bomba che stava piazzando sulla strada ferrata.
A rigor di logica, specie in una nazione smemorata come la nostra, di Peppino Impastato nessuno si dovrebbe ricordare più. Nessuno si doveva manco accorgere che era morto uno come lui, sedicente giornalista in un’oscura radio di provincia, nell’estremo sud di un paese che in quel periodo ha tutt’altro a cui pensare. Ma alla prova dei fatti non è stato per niente così: libri, associazioni, iniziative, commemorazioni, un film di grande successo popolare. Peppino Impastato ha di gran lunga molti più amici da morto di quanti ne avesse da vivo. Le amicizie postume sono una costante, fra i morti ammazzati dalla mafia; ma a Impastato ne sono toccati veramente tanti. Molta è gente perbene, addirittura. Di fatto adesso un sacco di gente si sente di chiamarlo Peppino, e tanto meglio così.
Strana, a pensarci, questa sopravvivenza della memoria. Strana perché Impastato era un ragazzo abbastanza ordinario, nella sua straordinarietà. Ribelle alle convenzioni, in conflitto frontale col padre, con una madre che cerca di mediare fra i due poli opposti di famiglia. Ce ne sono tanti, di ragazzi così, allora come oggi. La differenza sta nel contesto.
Cinisi, anni Settanta. Quel che altrove è il fenomeno dilagante ma inoffensivo delle radio libere, qui diventa uno scandalo inaudito. Radio Aut, si chiamava. Era praticamente una One-Man-Radio, dove Impastato faceva tutto e di tutto. Soprattutto gli piaceva fare satira, e farla mettendoci la propria voce: che alla radio, con l’aggravante della diffusione in un piccolo paese, significa metterci la faccia. Rileggere i testi delle sue trasmissioni, le prese per il culo nei confronti del Grande Capo Tano Seduto, oggi fa sorridere di tenerezza. Bisogna fare però lo sforzo di riportarli al contesto originario. Quel che a Milano, a Roma, persino a Palermo poteva essere irriverenza veniale, a Cinisi risultava devastante. Una cosa era prendersela con Tano Badalamenti rimanendo barricati dietro una scrivania, a migliaia di chilometri, una cosa era farlo mantenendo come distanza appena cento passi. I famosi cento passi che separavano la casa di Impastato da quella di Badalamenti.
Ma anche gli sfottò potevano essere neutralizzati come gli sfoghi di uno sfigatello comunista, categoria alla quale Impastato avrebbe potuto facilmente essere iscritto d’ufficio. C’era un problema, però. Un problema di DNA.
Se Impastato fosse stato uno sfigatello comunista e basta, la cosa probabilmente sarebbe finita con un falò della porta di casa o con il saccheggio delle attrezzature radiofoniche. Un modo per farlo stare zitto senza fare troppo scruscio si sarebbe trovato. Ma la cosa non era così semplice, perché quel ragazzo non era uno qualsiasi. Suo padre Luigi durante il fascismo era stato mandato al confino, colpevole di un genere di insubordinazione, l’appartenenza a Cosa Nostra, che il regime non tollerava. Suo parente era pure Cesare Manzella, padrino all’antica che nel ‘63 aveva ricevuto il discutibile onore di venire ammazzato alla grande, con una carica di tritolo piazzata nel vano portabagagli della sua Giulietta.
Insomma: la strada segnata per il giovane Impastato era quella. Nipote di mafioso, figlio di mafioso, ergo: mafioso lui stesso. Ci sono binari da cui non si può deragliare. Eppure capita, si deraglia. Ecco cosa significavano, metaforicamente parlando, i resti del suo corpo vicino alla strada ferrata: un deragliamento. Il deragliamento di Impastato risultava intollerabile pur essendo una pura e semplice rivolta generazionale, almeno all’apparenza. Ma non in Sicilia, non a Cinisi, non in quegli anni.
Peppino Impastato era portatore di una mutazione genetica. Un granello di polvere si era infiltrato fra le spirali del suo DNA e l’aveva fatto degenerare. Era un mutante, ecco la differenza. L’enorme differenza. Perché deragliando a titolo personale, il giovane Impastato si sarebbe tirato dietro tutti i vagoni delle generazioni a venire. Per gli stessi suoi compaesani rappresentava l’esempio di un riscatto personale che violava le regole dell’appartenenza. Un esempio potenzialmente contagioso. Assassinarlo è stata la reazione tipica di quell’espressione di nazismo omeopatico che è Cosa Nostra, la cui ideologia è fortemente eugenetica. Tano Badalamenti è Mengele, Impastato il portatore di una tara strutturale da stroncare sul nascere per salvare la purezza della razza mafiosa. Avrebbe vissuto più o meno felicemente, in un altro contesto. Ma ecco la sua sfortuna: nascere grande poeta bulgaro. O spirito libero in un contesto di dittatura omeopatica.
Questo è anche il motivo per cui di Impastato la memoria si preserva ancora dopo tanti anni: perché era un mutante. Un mutante benigno, dal nostro punto di vista.
Rimane facile fare il praticantato dell’Antimafia provenendo da una famiglia perbene, essendo nati e cresciuti in un ambiente di civile convivenza. Non che non conti: ma è facile. Impastato era diverso, perché aveva messo i piedi nel piatto in cui mangiava la sua famiglia, dove a rigor di logica avrebbe dovuto mangiare pure lui.
Rappresentava, rappresenta l’eccezione che non conferma la regola. La prova provata della falsità di uno dei proverbi più tossici della tradizione siciliana: “Chi nasce tondo non può morire quadrato”. La storia di Peppino Impastato, per chi se la sente – sta a smentire proprio la favola dell’irredimibilità che rende i siciliani prigionieri del loro destino apparente: chi nasce tondo può benissimo morire quadrato.
Fonte: Legalitàegiustizia.it
di Roberto Alajmo